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Bartolo Longo e la Riforma Carceraria

Bartolo Longo

*Un Pioniere ed un Precursore della Riforma Carceraria

La testimonianza di un esperto

Pubblichiamo una sintetica trascrizione della testimonianza che Mons. Cesare Curioni. Ispettore Generale del Cappellani dell’Amministrazione Penitenziaria d’Italia, ha reso su Bartolo Longo durante il ciclo di conferenze tenutosi a Pompei per la celebrazione del centesimo anniversario dell’Opera dei Figli dei Carcerati.
Desidero anzitutto inquadrare le parole "pioniere" e "precursore" in un significato molto preciso che non è quello prevalentemente tecnico. Bartolo Longo è stato un pioniere operativo, ha cioè preparato il terreno e i modi perché molti anni dopo alcune cose da lui previste e realizzate diventassero norme.
Si era formato, dal punto di vista culturale, nel filone della scuola positiva che era fortemente entrata nella cultura giuridica e penitenziaria italiana. Una cultura prevalentemente agnostica a cui egli, ribellandosi, fece il salto di qualità: da agnostico a cristiano convinto, a cristiano impegnato.
Il cristiano cioè che non solo nelle idee, nelle parole, nelle speranze, ma nella concretezza dei
fatti della sua vita porta avanti il messaggio cristiano. Infatti, la fondazione dell’istituto per i figli dei carcerati fa parte di questa ribellione a una concezione che egli non accettava più, che per lui era diventata estranea, perché il cristiano vede in tutti, anche nel delinquente più incallito, il fratello in Cristo.
Fratello forse scomodo o forse aberrante, ma fratello in Cristo perché titolare anch’egli di quella redenzione di cui ognuno di noi, per la Croce di Cristo, è titolare.
La scuola positiva che pure aveva avuto notevoli meriti per il progresso giuridico, in alcune sue frange aveva esasperato il discorso del criminale irrecuperabile, tanto che nel codice era stata creata la figura giuridica del delinquente professionale, abituale, o per tendenza. In questo quadro si inserirono anche alcuni filoni esasperati della concezione Lombrosiana che non solo sottolineavano la irrecuperabilità dei detenuti, ma andavano oltre affermando che erano irrecuperabili anche i figli nati da costoro.
E allora Bartolo Longo crea, vicino agli orfanotrofi sorti poco prima e sotto l’egida della Madonna del Rosario, questi istituti pionieristici nei quali anche i figli dei detenuti, così come gli orfani, potessero avere una casa, una educazione, una scuola, un lavoro, ma soprattutto un cuore. Perché egli vede in qualsiasi cristiano, anche se padri e madri colpevoli, e nei loro figli, una creatura di Dio, e la vede nel modo più concreto perché vuole che anche i figli dei carcerati abbiano quel diritto all’educazione, alla preparazione del proprio avvenire, il diritto cioè di avere una vita uguale a quella di tutti, degli altri fanciulli, di quelli cioè che non hanno la disavventura di aver perso i genitori perché orfani, o di averli persi perché messi in catene dalla legge panale.
Siamo quindi di fronte ad una concezione che oggi non esiteremmo a definire rispettosa della dignità della persona umana.
Ripensiamo ai radiomessaggi di Pio XII, alla Pacem in terris di Giovanni XXIII, alla Populorum progressio di Paolo VI, e a quella serie di Encicliche di Giovanni Paolo II, nelle quali la persona umana è posta al centro dell’attenzione perché abbia una sua dignità e sia rispettata da parte di chiunque, da parte del privato come dell’istituzione. Bartolo Longo enuncia questi principi non con parole ma con i fatti, rispettando cioè nei figli la realtà del cristiano che può essere sempre redento anche nell’ipotesi che si tratti di un padre criminale. E sono anni molto lontani.
Si incomincerà a parlare di rispetto della dignità della persona umana nelle Regole minime per i detenuti pubblicate dall’ONU nel 1955.
L’Ordinamento Penitenziario italiano, venti anni dopo nel 1975, ne farà un suo programma nell’articolo primo. Ecco quindi il pioniere e il precursore, non teorico, ma nella concretezza dei fatti.
Un secondo aspetto che non mi pare per nulla marginale: dagli istituti di Bartolo Longo, così come da quelli mutuati poi dalle Suore Calasanziane, partivano ogni anno i bimbi per visitare i loro padri e le loro madri detenute. Era un giorno di festa in questi ergastoli grigi e cupi dove le disposizioni regolamentari di allora non consentivano spiragli di luce, ma era un primo passo, sempre concreto e non solamente teorico, di mantenere quel rapporto tra il detenuto e la propria famiglia, che purtroppo il carcere duramente interrompe, ma che è essenziale non solo come aspetto di vera pietà, ma come aiuto concreto per la riabilitazione.
Un terzo aspetto. L’Ordinamento Penitenziario italiano auspica la partecipazione della società esterna all’opera della riabilitazione, e per questo ha creato la figura dell’assistente volontario come espressione vera di questa partecipazione, non solo sul piano puramente assistenziale e
caritativo, pur esso molto importante, ma come sostegno morale, come apporto culturale, e come anello di congiunzione con la propria famiglia.
Un piccolo episodio ci può oggi essere d’aiuto. L’Ordinamento Penitenziario, approvato come legge nel 1975, fu proposto da quel grande cristiano ed insigne politico che fu Guido Gonella, più volte guardasigilli.
L’iter legislativo fu lungo e complesso, tanto da decadere tre volte per la fine della legislatura.
In uno dei primi incontri col Ministro, quando si accennava appunto alla bozza dell’articolo sul volontariato, c’era con me un napoletano insigne, che fu poi vittima delle brigate rosse, il Magistrato Girolamo Tartaglione, Cristiano autentico, terziario francescano, sosteneva con passione, assieme a me, davanti al Ministro, la tesi del volontariato. A un certo punto, Guido Gonella, annuendo disse: "volete insomma che il cittadino italiano si comporti come all’inizio del secolo ha fatto l’Avvocato Bartolo Longo".
Ho dato solo alcuni brevi cenni di questa personalità complessa e formidabile di cristiano autentico, oggi riconosciuto dalla Chiesa "Beato".
Chi sa che un giorno non lo si possa proclamare Patrono del volontariato! È una speranza ed un augurio.

(Autore: Cesare Curioni)

*B.L.e l'emarginazione sociale, con particolare riguardo ai Figli dei Carcerati
Premessa: Fede e Carità, prospettiva unica nell’azione di Bartolo Longo
(…) Da tutti gli atti e le parole di Bartolo Longo, balza nettamente evidente la chiara coscienza di essere depositario, in tutta umiltà di un messaggio grandioso da lanciare al mondo del XIX e del XX secolo.
Senza fermarci sugli aspetti analitici di tale missione: diffusione della devozione alla Vergine del Rosario, risveglio della fede, richiamo al soprannaturale, senso della Chiesa, vigorosa azione sociale e caritativa ecc., vogliamo qui cogliere e sottolineare l’unitarietà profonda di ogni sua iniziativa che poggiava su un principio basilare che diverrà anche la nostra chiave di lettura del suo impegno verso il mondo degli emarginati:
"Dio voleva che noi, un semplice ed ignoto laico, in nome della Madonna parlassimo a tutto il mondo; voleva che fossimo un araldo della carità ed insieme un banditore della fede".
Ed esplicita:
"La Vergine non ama la fede in Lei senza le opere di carità. A questo scopo pensammo compiere ogni atto di fede nostra, con un’opera di carità. È questo possiamo dire, il palpito più sentito del nostro cuore".
Fede e carità si integrano e si illuminano a vicenda; costituiscono per Bartolo Longo un binomio indissolubile: "L’opera di Valle di Pompei, come spesso abbiamo avuto occasione di mettere in rilievo, è sorta, e si è ingrandita costantemente come una magnifica epopea di Religione insieme e di Carità, di fede e di Beneficenza educativa. Le opere della Fede sono state sempre preludio di nuove manifestazioni di religione e di culto".
1. Un immenso campo di lavoro
Certo, l’ambiente in cui Bartolo Longo si è trovato a vivere e ad operare, cioè la zona napoletana e il sud in genere del XIX secolo, e la Valle di Pompei in particolare, presentavano, dal punto di vista sociale, delle immense carenze determinate da ignoranza religiosa e culturale, strutture sociali insufficienti, assenza di formazione professionale, abbandono e miseria, che incidevano specialmente su alcuni strati popolari particolarmente deboli: fanciullezza in genere, orfani, ambiente agricolo e operaio, mondo del carcere con le sue famiglie e i figli, ecc.
Non è solo il mondo della povertà a cui andare incontro con provvidenze e soluzioni economiche; è il mondo più vasto e complesso dell’emarginazione sociale, della carenza di affetti, di dignità, di prospettive di senso della vita a cui Bartolo Longo si apre.
Vedremo come il suo strumento di intervento non sarà tanto la beneficenza materiale, quanto "curare il male alla radice", ricercare e affrontare le cause piuttosto che fermarsi a tamponare momentaneamente gli effetti.
Per questo l’azione di Bartolo Longo si rivolgerà prevalentemente all’educazione, alla riabilitazione, al ridonare consapevolezza e dignità, ad offrire gli strumenti idonei per uscire definitivamente da una situazione negativa.
2. L’Opera per i Figli dei Carcerati
A – la vicenda
Più che fermarci a ripercorrere analiticamente la storia dell’Opera per i Figli dei Carcerati, vogliamo delineare alcuni punti fondamentali che ci sembrano importanti per una sua più esatta comprensione.
Innanzi tutto è da sottolineare che l’idea di un’opera così nuova ed impegnativa si è fatta strada nella mente di Bartolo Longo, vincendo forti dubbi e resistenza interiori.
"Senza che noi ci fossimo accorti, senza nessuna personale intenzione nostra, l’Opera già era nella mente di Dio" afferma riferendosi all’anno 1887; anzi confessa realisticamente, commentando il casi del bambino della detenuta Maria Grazia Iandiorio che cercavano di affidargli: "Se io non aveva pensato giammai al Figlio dei Carcerati, tanto meno il mio pensiero poteva rivolgersi a bambini di pochi mesi o di pochi anni, che appena avevano lasciato il latte materno. Confesso che fino al quel momento non avevo avuto mai inclinazione a bambini; anzi per me un fanciullo era una noia indescrivibile, e pensavo quale difficoltà avessero avuto i miei educatori per educare me; ma per bambini così piccoli non avevo mai avuto un pensiero. Risposi immantinente che non era possibile per parte mia fare alcun bene a quella madre sventurata, che io compativa assai, ma che non poteva consolare in alcuna maniera. Se fosse stata almeno una bambina io facendo pur eccezione alle regole stabilite nel mio Orfanotrofio circa l’età di ammissione, l’avrei contentata. Ma un maschio? … dove l’avrei collocato?... come l’avrei allevato io, che solamente aveva aperto da poco un’altra camerata di orfanelle, una seconda schiera e non aveva che giovani maestre?... ma di uomini? Neppure parlarne. E credevo con un no reciso tutto essere finito; ma non era così scritto nei decreti della dolcissima Provvidenza di Dio".
Quando il 24 maggio 1891, ormai superate tutte le titubanze, dettava allo stenografo sotto il titolo "Un voto del mio cuore", il suo progetto di azione in favore dei figli dei carcerati, un lungo cammino interiore si era compiuto; in questo faticoso itinerario prendevano ormai un chiaro posto provvidenziale vicende e interventi molto disparati dagli ultimi cinque anni, a prima vista totalmente slegati tra loro, ma tutti concorrenti a maturare in lui la coscienza di un problema gravissimo e ancor più la consapevolezza che proprio lui era chiamato ad affrontarlo.
In questo documento, che segna la nascita morale dell’opera, già Bartolo Longo sintetizzava tutti i punti salienti del problema e del progetto:
– la fonte: "La carità di Cristo, che è fuoco vivo, intende a dilatarsi sulla terra e non guarda confini".
– la mediatrice: "La Regina della Misericordia… che ci aveva messo in cuore la santa risoluzione di sposare al culto la beneficenza";
– l’umile realismo: "Un voto segreto del nostro animo, che da tempo chiudiamo gelosamente nel cuore con una perplessità, a volte dolorosa, la quale nasce dal desiderio ardente di attuarlo, e dall’evidente insufficienza e, direi quasi impossibilità dei mezzi, per venirne a capo";
– i destinatari: "I fanciulli più abbandonati… che sono in condizione peggiore degli orfani, che portano senza colpa il marchio dell’infamia… senza educazione e senza freno… che fra poco si daranno al vizio, e quindi al delitto";
– la finalità: "L’educazione morale e civile dei figli di carcerati" che di riflesso "è altamente benemerita della civiltà e della patria: dopodiché eserciterebbe anche, nel medesimo tempo un’azione altamente educativa e moralista delle Carceri e dei Bagni di pena";
– la novità: "è questa un’opera cristiana tutta nuova, di cui ad oggi non vi ha esempio né in Francia, né nel Belgio, né in altre cattoliche nazioni: L’Italia sarebbe la prima a possederla".
II – I capisaldi dell’Opera
A – L’idea centrale.
Ricorda Bartolo Longo: "Chiaro, determinato, sicuro fu sin da principio lo scopo dell’Opera: raccogliere gli abbandonati orfanelli della legge, liberarli dai loro patimenti e dalle loro miserie, educarli alla religione e all’arte, all’amore del lavoro ed alla osservanza delle leggi, alla coscienza dei propri diritti, e, sopra tutto, alla coscienza dei propri doveri. Stabilire nella Valle di Pompei un vivaio di sana educazione.
Era un progetto ambizioso.
Di fronte alle affermazioni positivistiche egli proponeva il suo grande atto di fede che resterà sempre l’idea centrale dell’opera: "Queste disgraziate creature, affermano i positivisti, sono dalla nascita fatalmente predestinate a percorrere tutta la nefasta via della delinquenza, e nessuna prevenzione al mondo, nessuna educazione potrebbe trattenerle dall’incamminarsi fatalmente per la via della colpa e del delitto. Queste dure e scoraggianti affermazioni, che si circondavano della falsa luce di scienze positive e di dati sperimentali, non solo non ci trattennero dall’ardua impresa, ma non ci impressionarono neppure: noi non credevamo all’onnipotenza del male, noi credevamo invece alla forza redentrice del bene, all’efficacia rinnovatrice dell’educazione. A misura, perciò, che la pubblica inesauribile carità ne forniva i mezzi, io raccolsi quanti fanciulli potei, Figli dei Carcerati, e curai che fossero educati secondo un metodo speciale".
"Potei dimostrare, con l’eloquente prova dei fatti, che anche i fanciulli, i quali per disgrazia atavica hanno ereditato un’istintiva propensione a delinquere, sono suscettibili di un’educazione che ha la forza di correggere, modificare, e qualche volta di distruggere quella inclinazione naturale, quasi trasfusa nel loro sangue dai padri e dagli avi".
È la chiara affermazione della fede nell’uomo e nella sua libertà spirituale e della forza redentrice e formativa dell’educazione.
Questa è l’idea centrale su cui poggia l’impresa educativa di Bartolo Longo.
B – I mezzi pedagogici.
Il primo, fondamentale, è il lavoro, intenso, da Bartolo Longo sia come strumento formativo nel periodo che i ragazzi passano nell’Istituto, sia come mezzo che assicura il reinserimento sociale dignitoso dopo il termine di tale periodo.
Il tema del lavoro ritorna molto spesso nelle pagine di Bartolo Longo per le sue molteplici implicazioni di tipo formativo, sociale, ecc. In una ci offre una sintesi del suo pensiero su questo tema, affermando: "Il lavoro, secondo la nostra scuola, è essenzialmente educatore".
Strettamente collegato con il lavoro è lo studio, di cui Bartolo Longo aveva una personale visione, confacente alla particolare situazione a cui doveva far fronte; per i suoi ragazzi non prevedeva tanto lo studio come accademico ornamento intellettuale, ma piuttosto come mezzo per rendere più umana, efficiente ed adeguata la preparazione professionale.
"L’educazione non deve essere, com’è stata finora, intesa solamente ad istruir la mente, senza aver d’occhio la vita, ma a contemperare la cultura della mente con quella del cuore, il sentimento del dovere, e la legge del lavoro; il tutto sostenuto, vivificato dalla religione, la quale solleva l’anima al cielo e le impedisce di sprofondare nella materia, che la uccide e snatura".
Bartolo Longo aveva ben chiare le caratteristiche educative della musica: "Nel mio metodo educativo è di grandissimo momento il frammezzare la fatica del mestiere, o l’esercizio delle arti meccaniche con lo studio della Musica, e con l’apprendere l’arte degli strumenti musicali e con il suonare in concerto. In generale la Musica è per me un elemento dei più rilevanti per la educazione di questa classe di fanciulli. E però la Musica, nella quale questi già cominciano a progredire notevolmente, è entrata nel vasto complesso educativo, onde è frutto il singolare  buon andamento dell’Ospizio, perché così suggerivano la Pedagogia e l’esperienza.
La pedagogia m’insegnava quali frutti di disciplina, di ordine, di armonia nel volere e nell’operare derivano dall’ affiatamento e dalla simultaneità che sono necessari in una Banda musicale".
Infine, come altro mezzo pedagogico altamente valorizzato da Bartolo Longo troviamo l’educazione fisica, coordinata con le altre attività: "Ho prescelto a mezzi ausiliari di educazione per monelli lo svolgimento delle forze fisiche e muscolari, come la ginnastica e gli esercizi militari, il salto, la corsa e i bagni".
C – I mezzi morali e spirituali.
Non per nulla il suo binomio inscindibile era "lavoro e preghiera". Certamente, l’aspetto morale – spirituale costituisce il nucleo centrale di tutta la sua concezione educativa e rappresenta anche un suo personalissimo tocco di originalità nell’applicazione alla particolare situazione dei figli dei carcerati. La base di tutto il lavorio educativo dev’essere un altro elemento, che i primi due coordini, li stringa in un vincolo indissolubile, e sia loro di sostegno incrollabile e di vita, che non venga mai meno. Questo nuovo elemento, che è la vita essenziale dell’educazione, è la Carità. Solo quando sono ispirati, animati, guidati, e come vivificati dalla carità, quei due fattori di Educazione e di Civiltà riescono nello scopo, e producono quegli effetti durevoli e proficui che tanto si desiderano. "La parola Carità, come l’intendo io, e con me milioni di uomini sapienti, legislatori e benefattori veri dell’umanità, siccome la intende tutto il Cristianesimo, vuol dire amore: ma non amore di sé, non amore interessato, non terreno, non basso e volgare; ma sì invece nobile, amore puro, amore divino; quell’amore che ebbe sede nel Cuore del divin Redentore, e del cui fuoco Egli vuole sia accesa la terra; quell’amore parte da Dio e a Dio ritorna, e nel cammino abbraccia e involge le creature, e segna di un’orma fiammeggiante di beneficenza la via che percorre dalla terra al cielo".
Tutto questo complesso di interventi, e la carità stessa che li ispirava, facevano però capo al mezzo educativo principe per Bartolo Longo, cioè la religione.
"Io non seguo, nella scelta di questi fanciulli e nel metodo di educarli, né la scuola della Salpetrière, né quella di Nancy, né il Lombroso, né il Ferri, né questo o quell’altro scienziato. Capo – scuola italiano o straniero, che è Cristo".
d – La sintesi finale: il "segreto" educativo di Bartolo Longo.
Mezzi pedagogici, accorgimenti psicologici, formazione religiosa ed ogni altro strumento educativo trovano la loro sintesi unitaria e suprema in quello che Bartolo Longo amava definire il "suo segreto", il suo mezzo educativo infallibile: l’incontro con Gesù Cristo.
Il sistema di Bartolo Longo è, infatti, "cristocentrico" ante litteram. Basti, per sottolinearlo, qualche rapido brano scelto tra le tante ardenti pagine sull’argomento che costellano i discorsi e le trattazioni sull’educazione dei figli dei carcerati; non hanno bisogno di alcun commento.
"Ecco venuto il momento, in cui vi svelo apertamente il mio segreto. Esso non è nuovo, ma è stato messo disuso, come roba rancida, che non confaceva al progresso dei tempi. Ma io non temo le
risa beffarde degli increduli o il sorriso ironico di chi, riputandosi scienziato positivista, ha rinnegato tutto un nobile passato, cioè l’eredità della sapienza e del senno pratico dei padri nostri per inventare e spacciare teorie che non hanno solido fondamento. Non temo tutto ciò, e sono ardito di evocare principi didattici, oggi gittati da canto e spregiati dai moderni cultori della pedagogia. Né le mie saranno semplici asserzioni: vi racconterò fatti e vi presenterò statistiche, poiché pare che la statistica valga oggi più che ogni altro argomento. E senz’altro vi dico, che il mio Segreto è nella nota fondamentale dell’armonia dell’universo, in quella nota arcana che vibra nel cuore dell’uomo, che fa beato chi ne ascolta la melodia, che è l’essenza e la pietra angolare della vita e del progresso dell’umanità.
Quella nota che esiste e armoniosamente freme per tutti, e che pure tanti considerano come spenta per sempre; quella nota fondamentale di ogni bellezza, di ogni civiltà, di ogni benessere sociale è Gesù Cristo.
Così ho fatto io per i figli dei carcerati. La loro educazione si diceva difficile, per motivi impossibili; il loro avvenire si prevedeva tristissimo: ed io ho fatto vibrare in quei cuori innocenti la nota che vi ho detto. Loro ho presentato, loro ho fatto amare Gesù Cristo"…
Conclusione
Sono cento anni da quando Bartolo Longo iniziò a raccogliere la prima schiera di fanciulli pompeiani per il catechismo; sono cento anni che il suo grande cuore continua a battere per chi soffre, all’unisono con il Cuore del suo unico Maestro: "Senza Cristo potremo avere noi una vera carità? Ah! Una sterile compassione, sì; parole di conforto, sì; ma i fatti, i fatti! Chi ci fa raccogliere questi fanciulli? Chi ci fa amare il figliuolo della vittima dei malfattori? È Cristo. Chi ci fa amare il figliuolo dell’assassino? È Cristo. È Cristo che fa sorgere qui una città nuova sotto gli auspici della civiltà nuova; è Cristo che ha ispirato me, povero uomo. Cristo è legame universale, potente, benefico, sociale. Senza Cristo non vi è legame, non amore, non carità, non beneficenza. Togliete Dio, avrete una sterile compassione, ma amor vero, caldo, efficace, duraturo, non mai".
Ecco il segreto che Bartolo Longo grida ancora!
(Da: il R.n.P. del 1982 – n° 7-8 – Autore: Mario Presciuttini)

*Effetti delle pubblicazioni di Valle di Pompei nelle Prigioni

(Bartolo Longo racconta)

Da poco si era incominciato a diffondere gli opuscoli e le stampe di questa Valle pei luoghi di pena e di espiazione, e già era dato scorgerne chiaramente il frutto, - Non posso descriverle, - riferiva da Teramo il Cappellano, - quanto vantaggio ha apportato in queste carceri la lettura del Periodico.
Naturalmente, a misura

(Continua...)

*Visitare i Carcerati
Tra le opere di misericordia questa ha un impegno speciale nella missione del Santuario di Pompei, in quanto esprime assai chiaramente un disegno soprannaturale e rivela tutto un paziente lavoro della misericordia di Dio, attraverso il Rosario, in mezzo a questi fratelli in pena.
"Lo spirito del Signore, dice Gesù, mi ha mandato ad annunciare la libertà ai prigionieri" (Lc 4 – 19).

Nella liturgia del Venerdì Santo la Chiesa, raccolta dinanzi al Santo Legno della Croce, depone anche questa preghiera: "aperiant carces!" siano aperte le carceri, donde la sesta opera di misericordia.
Non prendiamo la preghiera alla lettera, quasi che si voglia stracciare un giusto decreto di condanna ed abolire un mezzo di protezione (discutibile assai) della società. Tutte le infrazioni meritano un castigo: quello che la legge, rettamente interpretata, stabilisce.
È logico che il delinquente venga punito, sia per sé, essendo la pena, sempre, una redenzione, sia per gli altri, perché non abbiano ad essere vittima dei perversi.
Si conviene però che non tutti i carcerati sono rei e delinquenti: vi sono innocenti e disgraziati, vittime e infelici, ma per tutti la "bontà infinita ha si gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei".
Ottenere questo avvicinamento del carcerato a Dio è lo spirito dell’opera della misericordia.
Dio condanna l’odio verso chiunque, sia questi il più fiero nemico. Per i suoi crocifissori Gesù, morente, invocò il perdono: "Padre, perdona, non sanno quello che fanno!".
Il nostro Pascoli ribadisce che "l’odio è stolto "mentre è la pietà che l’uomo all’uom più deve". A questa pietà cristianamente intesa si chiama la Chiesa.
Il sentimento di pietà invocato dal Pascoli si riferiva a un tal Lucheni, omicida, chiuso nel carcere di Ginevra. Il poeta trova forti attenuanti alla grave colpa dell’assassino, fino a nascondersi egli in una voce senza volto, "l’Ignoto", ed affermare:
"Son io che uccisi, forse … / tu … eri un reietto / e senza nome … / e la tua patria t’intimò: Va via! / anche tua madre, Va! Ti disse. / Eri – suprema gioia – eri innocente! / potevi dir tendendo le tue braccia: / Voi tristi, io buono; e voi tutto ed io niente! / perché lo soffro, non perché lo faccia, / conosco il male". / … Eri innocente, eri dei mesti / di cui far bene è non dover, si gioia; / eri la dolce vittima; volesti / essere … sciagurato, esser il boia!". Qualunque sia la valutazione del poeta, a noi basta la sua visione, cioè, che
"in questo flottar lieve" delle vicende umane, per "chi sale e chi discende" … l’acqua ritorna, con la morte, uguale!". E allora non la stoltezza dell’odio si deve al carcerato, ma la pietà invocata da Gesù Cristo e dalla Chiesa.
Per questo S. Paolo raccomanda: "Ricordatevi dei prigionieri, quasi foste anche voi incatenati con loro, e di quelli che sono maltrattati, essendo voi pure nel corpo". (Ebr. 13 – 3).
Sentirsi solidali con questi fratelli è profumo di carità cristiana, in base alla legge di "simpatia" del Corpo mistico: "piangere con chi piange, godere con chi gode", (Rom. 12 – 15) tanto più che, essendo ancora "nel corpo" abbiamo noi pure la possibilità di subire la stessa sorte.
Se il Cafasso – detto il prete della forca – soleva chiamare i condannati al patibolo, da lui assistiti: "i santi impiccati", avrà avuto buone e valevoli ragioni.
Non discutiamo sopra i delitti, né sulle condanne, non sulle vittime, né sui delinquenti, pensiamo che il carcerato è un infelice che soffre, che sconta, che espia colpe sue o di altri, e, come tale, se Gesù ne fa un obbligo assisterlo, non possiamo escluderlo dalla nostra comprensione di cristiani.
Silvio Pellico ne "Le mie prigioni" ci svela quali possono essere i sentimenti di un infelice in carcere e Oscar Wilde nel libro "De profundis" ci fa conoscere le tormentose sue meditazioni nel carcere di Reading.
Qui egli meditò anche il suicidio; ma ripensò a lungo al bisogno di elevarsi e di purificarsi per aspirare ad accostarsi a Dio.
Il carcere con il grappolo delle sue umiliazioni, sofferenze e distruzioni d’ogni genere, nella mente di Dio che lo permette, quindi, nel piano soprannaturale, ha una funzione purificatrice, come le sofferenze del Santo, per sé e per gli altri.
Al carcerato, reo o innocente, tali pene aprono nuove strade per le quali, non solo ricostruisce spesso la propria esistenza, ma può addirittura "aspirare alla felicità".
Nel carcerato dobbiamo vedere una vicenda dello spirito, spesso assai terribile; e per questo egli deve essere oggetto di umana e sincera compassione. Con il carcerato dobbiamo scambiarci un insegnamento: il significato del dolore e della sua cristiana bellezza.
Oscar Wilde completa questo pensiero ne "La ballata del carcere di Reading" per l’uccisione di C.T.W. il 7/7/ 1896.
Non per fare della letteratura riferiamo una parte della lunga lirica, tutta ispirata all’insegnamento di Gesù Cristo, ma come una "ouverture" del poema che, dal 1891, in forma ufficiale viene intessendo l’Opera di Bartolo Longo, ispirata alla celeste sinfonia del Santo Rosario.
Ecco la ballata di Reading:
Io non so se la Legge è giusta / o se la Legge è ingiusta. So soltanto / che noi languiamo abbandonati in carcere / circondati da mura troppo alte, / dove ogni giorno è lungo come un anno … / E questo posso dire: ch’ogni Legge / creata dall’uomo per l’uomo, dal tempo / che il primo uomo assassinò il fratello / ed ebbe inizio la pazzia del mondo / rende paglia il frumento e tiene in vita / gli sterpi / … allora s’ingrandisce  il male.
/ Ed anche questo so … / ogni carcere è costruito / dall’uomo con mattoni di vergogna / e chiuso dalle sbarre, perché Cristo / non veda come gli uomini riescono / a mutilare anche o propri fratelli. / Con queste sbarre macchiano la luna / ed accecano il sole. Forse è giusto / che tengano nascosto il loro inferno, / dentro avvengono cose che nessuno, / no il Figlio di Dio, non il Figlio / dell’uomo, avrebbe forza di guardare.
/ Soltanto gli atti vili, come le erbe / velenose, fioriscono nel carcere: / tutto ciò che di buono vi è nell’uomo / qui va in rovina ed avvizzisce per sempre.
/ Sulla porta c’è la Pallida Angoscia: / il Carceriere e la Disperazione. / È mezzanotte nel cuore di un uomo, / è il crepuscolo nella cella di un altro / ognuno nel suo inferno solitario / gira un uncino o lacera la corda. / Il silenzio lontano è più solenne / del suono di una campana di rame. / Mai una voce sommessa s’avvicina / per dire una parola di conforto. / Lo sguardo che ci scruta dalla porta / non ha pietà, impassibile.
Da tutti / dimenticati siamo qui a marcire, / sfigurati nel corpo e nello spirito, / Così, sola e umiliata, arrugginisce / la catena di ferro della vita. / Felice il cuore che si può spezzare / e raggiungere il perdono e la pace. / Non altrimenti un uomo può trovare / la via che lo allontana dal peccato.
/ Non altrimenti che attraverso il cuore / spezzato, Cristo potrà entrare in lui.
Ancora due testimonianze, l’una di un santo, l’altra di un martire del carcere, San Vincenzo de’ Paoli e Silvio Pellico.
"Hanno meritato, non lo nego, il castigo ch’è loro riservato, dice il santo cappellano delle galere di Francia, ma spetta alla nostra carità e al nostro amore prenderne cura, non permettere che siano senza soccorso, senza conforto.
Pietà di loro!" – "Benedico la prigione, dice il Pellico, perché m’ha fatto conoscere l’ingratitudine degli uomini, la mia miseria e la bontà di Dio".
Oggi la vita carceraria, per tanti aspetti, è mutata di molto; molte cose sono magari allo stato di prima, come denuncia il Wilde, ma del tanto che si è fatto, a favore di questi fratelli infelici, senza mentire o esagerare, in buona parte il merito spetta al nostro Beato, Bartolo Longo,
In ogni Istituto di pena questo eroe della carità meriterebbe un monumento o almeno vi dovrebbe essere un ritratto.

*L’Istituto per i figli dei Carcerati

Larga risonanza viene al Santuario di Pompei dal fatto che all’ombra di esso fiorisce un Istituto per i figli dei Carcerati nelle due sezioni, maschile e femminile.
Fu il gesuita calabrese (valente avvocato fattosi sacerdote) Padre Giorgio dei Baroni Melecrinis a persuadere Bartolo Longo a lanciarsi in quest’opera nuovissima.
Il Santo Rosario nei suoi quadri, specialmente quelli della vita dolorosa di Gesù, costituisce la meditazione più efficace per un detenuto, la spinta alla comprensione e alla compassione cristiana per noi.
Egli viene a sentire accanto a sé, al suo dolore profondo, quasi la presenza sensibile di Gesù, mentre la carezza della divina Madre, in quella ripetizione delle “Ave, Maria!” lo solleva dal cupo abbandono.
La luce vince le tenebre del cuore e si ricomincia a pensare e a guardare alla vita con fiduciosa speranza e cuore di fanciullo.
Bartolo Longo, persuaso che “soltanto la Religione, la quale solleva l’uomo al di sopra della polvere terrena, può dare al carcerato la forza di soffrire, di rassegnarsi, di sperare …” visitò le carceri e i “bagni penali” più rigorosi con “paterna premura”; spediva ai detenuti il periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei” e altra stampa come il giornale “Valle di Pompei”, immagini, ricordini della Vergine, s’interessava delle loro famiglie.
Di fede e di amore cristiano ha bisogno ogni uomo; ma di più il carcerato.
Suscitarla nel suo cuore per rendergli meno aspre quelle ore che lente e uggiose egli passa nella cella  carceraria o nell’ambiente recluso, divenne febbre di amore e di apostolato nel cuore di Bartolo Longo.
Lo lusingava l’idea che il recluso o l’ergastolano  in fondo ai più aspri combattimenti dell’anima, a cui si affaccia la disperazione e l’odio contro la società ”se sentisse una voce amica, leale, che venga da oltre la sbarra, guarderebbe con occhio più benigno gli uomini e quella società stessa che lo allontana”.
Cercò allora di mettersi in corrispondenza con essi.
La carità avvicina il ricco e il povero, il sano e l’ammalato, il recluso e il libero nel Nome santo di Dio, che è Padre di tutti e tutti Egli vuole riscaldati dal sole dell’Amore.
La Carità, che è legge negli Istituti Pompeiani – Cittadella della Carità è Pompei raggiunge nelle carceri i fratelli in pena.
La lettura di libri sani, che non isteriliscono lo spirito con il gelido scetticismo, e quella dei prodigi della Vergine del S. Rosario, furono come le periodiche visite iniziate da Bartolo Longo e continuate oggi dalla Direzione delle sue Opere.
La Madonne ne era contenta, perché si levavano voci di benedizione al Nome di Dio e si recitava la sua Corona e la Novena composta da Bartolo Longo, si praticava perfino nelle carceri dai carcerati i quindici sabati.
Dove proma c’era organizzata la bestemmia, ora si innalzava l’inno della confidenza piena alla Vergine Santissima, invocata e acclamata consolatrix afflictorum, refugium peccato rum, Regina amabilissima del Santissimo Rosario, consolatrice e madre dei carcerati.
E, nemmeno a farlo apposta, il primo omicida che sentì il beneficio della Vergine di Pompei fu un calabrese di nome … Rosario.
Si costituì convinto da Bartolo Longo, dietro promessa che avrebbe assistito il piccolo di 4 anni.
Altro detenuto che diventa ardente propagandista delle glorie del S. Rosario fu un tale Alfonso, anch’egli calabrese.
La visita che Bartolo Longo gli fece si chiuse con un abbraccio e con il pianto vicendevole. “Egli pianse fra le mie braccia, e ci separammo come due fratelli …”.
In breve tempo nei 120 bagni penali ed Istituti di pena esistenti in Italia (1891), le pubblicazioni pompeiane diventano come l’unico atteso conforto dei carcerati. “Non vi fu più un detenuto che non cercasse un libro, un opuscolo, un fascicolo almeno che non venisse dal porto di tutti i tribolati, da Valle di Pompei”.
Il “Visitare i carcerati” come comanda la Chiesa porta benedizione alle Opere del Santuario, in quanto si mantiene aperto un colloquio con questi fratelli.
Essi ci tengono a far giungere fino al trono della Vergine i loro palpiti ed aneliti: sono voci di riconoscenza, di implorazione, di pentimento, di fermi propositi; sono anche offerte, (altro che obolo della vedova!) inviate pudicamente e con tanto calore e beneficio degli … orfani della legge.
Un segno sensibile per quel che la Madonna opera a favore dei loro figli e di loro stessi. E così la visita ai carcerati è legge negli Istituti di Pompei.
La Madonna e il suo Rosario operano, indiscutibilmente, i prodigi più impensati, e questi sono determinati anche da un fatto: ogni anno, con i dovuti permessi delle autorità competenti, i detenuti ricevono la visita dei loro figli ricoverati a Pompei. Una visita che dura anche 3 giorni.
Mangiano insieme, insieme passeggiano e fanno corona agli altri detenuti, essendo un sollievo anche per costoro abbracciare e baciare queste creature.
Vi si recano questi piccoli messaggeri della Madonna con il loro distintivo: la Corona del S. Rosario. La portano al collo le bambine e fa spicco il nero ebano di essa sul bianco del grembiule.
A questa corona si deve il ritorno alla fede, alla bontà, alla pace serena dei genitori e dei compagni di pena, come l’accostarsi ai Sacramenti insieme ai figli nella cappella del carcere e la promessa giurata di recitare ogni giorno ilo S. Rosario.
C’è ancora uno scambio di perdono, e la famiglia, dispersa dall’odio e dal rancore, si ricostruisce almeno nell’affetto.
C’è una enormità di lettere di questi padri e mamme che, benedicendo alla visita ricevuta, la dicono una vera rivelazione di amore, felici di aver trovato un punto nuovo per guardare la terra; questa dolce terra che, pur irta di spine e di tribolazioni, tutti amiamo e calchiamo, e sentiamo rigenerata da un vento bellissimo che è vento di redenzione.
Visitare i carcerati vuol dire, far sentire che su di essi splende, con la sua gioiosa presenza, Iddio. L’umanità è la grande famiglia del Signore: la terra la sua casa, nella quale ognuno di noi ha diritto alla gioia.
Vale la pena vivere gli anni di vita per questa parola: “Il figlio dell’uomo è divenuto il figlio di Dio!” Il figlio ha una Madre e questa non si concede riposo per riportare a Dio tutti i redenti dal Sangue preziosissimo del Figlio, come sottolineò il Santo Padre Giovanni XXIII nella visita ai carcerati di Regina Coeli.
Per riuscirvi: come Gesù istituì le Opere di misericordia, la Madre a sua volta istituì la catena dell’amore; il Rosario.
I prodigi del Rosario nelle carceri sarebbe l’argomento più interessante per un romanzo, meglio per un film.
E avremo, tutti, tanto da imparare.
Oggi nelle carceri i cuori esultano allo svolo di un nome e alla visione di un’immagine; la commozione diventa sinfonia in ogni ora del giorno: Ave Maria, piena di grazia, prega per noi, esuli figli di Eva, peccatori, sì, ma figli tuoi, o Madre di Misericordia!
*Maria nelle Carceri - Il Periodico e il Rosario nelle carceri - Bartolo Longo racconta: Come sorse l’idea
Per vie misteriose e inattese la Provvidenza mi metteva in contatto con le Carceri, con Direttori e Cappellani di Carceri, con carcerati e carcerate, per farmi sentire il bisogno di un’Opera nuova, e mai non tentata da altri, a favore non solo dei padri Carcerati, ma ancora dei Figli dei Carcerati.
Trent’anni addietro, nel 24 maggio 1891, Festa della Vergine Auxilium Chistianorum, pochi giorni dopo che era stato consacrato tutto il Santuario di Pompei, con la dedicazione di un Altare al Cuore amoroso del divin  Redentore, nel Periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei” io lanciai al mondo il primo grido del cuore a favore degli Orfani della Legge.
A tutti è noto come quel mio Voto del cuore ha avuto la più inaspettata e provvidenziale sorte di divenire un fatto compiuto con l’Ospizio Educativo pei Figli dei Carcerati.
È vero che questo Ospizio veniva fondato pei soli maschi, ma l’idea di salvare anche le loro sorelle di sventura, le Figlie dei Carcerati, sorse in me contemporaneamente.
La nuova Opera di Beneficenza mi metteva a contatto coi bassifondi sociali, in cui mi destavano un’infinita pietà e insieme raccapriccio – le ignorate miserie, - i baratri inosservati di turpitudini e di corruzione, rese quali condizioni di vita normale per l’ignoranza e per l’abbandono, - le forme di una vita, peggio che selvaggia e brutale,  - sconosciute alla società, che sfuggivano financo all’occhio del magistrato o del sociologo.
E in questi gorghi fangosi ed iniqui io osservavo che venivano travolte miseramente, inconsciamente, soprattutto le bambine, le fanciulle, lasciate in altrui balìa dalle madri o dai padri, che erano andati a finire nelle carceri.
La mia pietà, il mio raccapriccio, aumentavano a dismisura nelle mie visite alle Carceri femminili, in cui le madri condannate narravano sciagure che facevano piangere, di cui erano vittime le loro infelici figliuole, rimaste nel fondo della miseria, circuite dagli umani avvoltoi, preda e scempio dei più abietti figuri della malavita.
Mi si stringeva il cuore a vedere fin dove arrivava la brutalità e il pervertimento umano …
E queste povere fanciulle da salvare, insieme coi loro fratellini che io già accoglieva nell’Ospizio pei Figli dei Carcerati, oh quante volte hanno intenerito e straziato il mio cuore!

*Nobiltà  ed Umiltà in Bartolo Longo
La testimonianza che offriamo in questa pagina ha un significato del tutto particolare. Più che la figura di Bartolo Longo è possibile scorgervi il riflesso di ciò che, anche indirettamente, il Beato Bartolo Longo riusciva a trasmettere a chi lo avvicinava. L’autore della testimonianza è scomparso, era un uomo mite e generoso, un uomo buono e leale. Ciò che scrive è lo specchio di un’anima. Parole semplici, scritte con l’inchiostro dei sentimenti. Preside per molti anni nelle scuole superiori, il prof. Raffaele Monaco ha insegnato umiltà e coraggio nella più impegnativa cattedra della vita.
Il nome di Bartolo Longo lo sentii, per la prima volta, quando avevo poco più di sei anni. Mio padre nel 1922, poco prima di partire per l’America per guadagnarsi, facendo il lustrascarpe, quanto gli occorreva per sostenerci, confidò a mia madre, alla mia presenza, di volersi recare a Pompei per consegnare, personalmente, a Bartolo Longo una istanza con la quale chiedeva di accogliere in una delle Opere pie del Santuario della Madonna del Rosario due figliuole di un carcerato di Sacco (Salerno) di cui era stato, sino a pochi giorni prima, sindaco.
Recatosi a Pompei al suo ritorno in Sacco raccontò con accenti di profonda ammirazione sul come
era stato accolto dall’Avvocato Bartolo Longo che lo aveva colpito per la maestosità della sua figura fisica, per l’umiltà, che solo può possedere chi con Cristo e in Cristo quotidianamente si specchia, per la gentilezza superiore ad ogni immaginazione che solo può possedere chi nel sangue possiede le stimmate della nobiltà e per la premurosità che sa usare solo chi in Dio confida e per Dio opera e vive per lenire le sofferenze dell’umano genere in questa Valle di Lacrime.
Terminato con queste parole il suo discorso di esaltato ammiratore dell’Avv. Bartolo Longo raccomandò a mia madre, nel caso la risposta di accoglimento della sua istanza fosse giunta dopo la sua partenza per l’America, di recarsi personalmente con tutti i figli a Pompei per ringraziare a suo nome Bartolo Longo che per lui era più che degno di meritare la gloria dell’Altare.
La risposta venne quando mio padre era già partito per l’America e mia madre che si trovava all’atto della ricezione della risposta a Salerno con tutti noi suoi figli (Giuseppe di 14 anni, io Raffaele di 8 anni e ½, Gaspare di 5 anni, mia sorella Angelina di un anno e mezzo e la mia cuginetta, Lina Mangieri, di 18 mesi) decise senza perdere un attimo di tempo di partire per Pompei servendosi come mezzo di trasporto il tram.
Ricordo quel viaggio come se fosse avvenuto ieri. L’euforia per il tram di cui prima di allora non sapevamo nemmeno l’esistenza, e per la meta da raggiungere fu superiore ad ogni immaginazione e ci volle, per tenerci a bada, tutta la pazienza di cui, per fortuna, mia madre e mia cugina Lina erano ampiamente dotate.
Avevamo superato di soli pochi metri un ponte sul fiume (credo il Sarno) quando mio fratello Giuseppe nel tentativo di recuperare il cappello, strappatogli dalla testa dal vento mentre stava affacciato al finestrino posto a pochi centimetri di distanza dalla porta d’uscita che il conducente teneva aperta per attutire gli effetti negativi della gran calura, saltò fuori dal tram senza chiederne e attenderne la fermata.
L’urlo straziante di mia madre che teneva in braccio la mia sorellina fu contemporaneo al salto nel vuoto di mio fratello. Fermatosi il tram, il conducente e i viaggiatori stavano per avvicinarsi ai finestrini e alla porta d’uscita del tram con la macabra prospettiva di vedere il corpo sfracellato di mio fratello quando un nuovo urlo di mia madre non più di straziante angoscia, ma di esultante gioia annunciò "Mio figlio è vivi. È la Madonna che me lo ha salvato!".
Nel suo volto irrigato di lacrime di gioia sgorgavano a fiotti, dai suoi occhi leggevamo a chiare lettere la sua immensa gioia che divenne irrefrenabilmente esaltante nel momento in cui mio fratello Giuseppe salito sul tram le si gettò tra le braccia. Lo strinse forte al suo petto e lo colmò di tanti, tanti baci.
Tutti gridarono al miracolo ed io come tutti ci credetti allora, e ancora di più oggi ci credo. Riprendemmo il viaggio e raggiungemmo il Santuario per ascoltare la Santa Massa.
Avevo otto anni e ricordo che quando scendemmo sul piazzale antistante la chiesa mi sentii schiacciato dalla sua grandezza e dalla sua bellezza e al tempo stesso provai una grandissima emozione, un gran senso di timore riverenziale e di fervore religioso. E pensare che ancora non erano state issate sul campanile le campane che erano allineate nel piazzale della chiesa.
Entrati in Chiesa la messa, fu per me, per mia madre e per tutti noi la messa più sentita di tutta la nostra vita. Subito dopo, fattoci annunciare, entrammo nello studio di Bartolo Longo che ci accolse con la premura che ci aveva già descritto mio padre; i suoi modi affabili, la sua straordinaria disponibilità all’ascolto, cancellarono ben presto in noi ogni imbarazzo per lasciare il posto ad un sentimento di cordialissima simpatia e di affettuosa, devota e sincera amicizia.
Bartolo Longo ritornato a sedersi sulla sedia della sua scrivania dopo averci pregato di ricambiare i saluti a mio padre aprì il cassetto della sua scrivania e tiratone fuori un quadretto della Santissima Madonna del Rosario lo consegnò a mia madre e, dopo averci raccomandato di
impostare la nostra vita al culto di Maria così ci parlò: "Pregate per l’intera umanità, per vostro marito e padre e per tutti i vostri parenti, per me e, soprattutto, per quell’anima benedetta del Cardinale Monaco Raffaele La Valletta, vostro antenato che tanto mi aiutò spiritualmente e materialmente per l’erezione del Santuario nel quale avete ascoltato la santa Messa".
Il quadretto che ci regalò era un’immagine della Madonna del Rosario in bianco e nero con la cornice ovale di semplice metallo. Mai oggetto di culto mi sembrò più prezioso, più degno di essere custodito con sacro rispetto di una reliquia.
Quante preghiere, quante lacrime mia madre ha versato dinanzi "alla sua Madonnina" che divenne anche la mia Madonnina che ora conservo appesa alla parete sinistra della mia camera da letto e che portai nel cuore e nella mente per tutta la durata della guerra e che sicuramente mi salvò dai numerosi attentati che mi tesero i nemici e più ancora i falsi amici ai quali risposi sempre e solo col coraggio che Lei mi infondeva.
Con il coraggio e con il perdono che Lei mi suggeriva additandomi nel chiuso della mia coscienza il suo Cristo che fu ed è il mio Cristo perché è in Lui e solo in Lui che confido per superare e vincere gli ostacoli di cui continua ad essere disseminato l’arduo sentiero di questa mia vita terrena che ho percorso e percorro con l’unico intento di amare e perdonare il mio prossimo per farmi da Lui amare e perdonare e guadagnarmi se ne sarò degno, la gloria del Paradiso per rimirarvi genuflesso la potente Maestà di Dio, e della Madonna che Lui prescelse come mamma del suo Divin Figlio Gesù Cristo e di tutti gli Angeli, i Santi e tutti coloro che ne furono da lui giudicati degni e che gli fan corona in Cielo.

(Autore: Raffaele Monaco)

*L'esempio di Bartolo Longo per il sistema penitenziario

Un Convegno alla Camera dei Deputati

Nella grave situazione di persistente inadeguatezza delle carceri italiane, che costringe i detenuti in condizioni di insopportabile disagio, a volte fino a raggiungere livelli disumani, è significativo che proprio alla Camera dei Deputati, il 17 settembre scorso, si sia svolto il convegno su "L’opera di carità del Bartolo Longo, anticipatrice dei valori espressi nell’articolo 27 della Costituzione".
E, in effetti, se si pensa soprattutto al terzo comma della norma, "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato", è evidente quanto il pensiero e l’opera del Beato Bartolo Longo abbiano contribuito a formare una sensibilità sociale e una cultura giuridica approdata nella formulazione dell’articolo 27 e in tutte le leggi che, poi, ne sono scaturite.
Sul tema proposto dal convegno, organizzato dal Pontificio Istituto Bartolo Longo insieme alla Comunità Borgo Amigò, all’Associazione Lux in Media e all’Associazione Sandro Pertini Presidente,
hanno parlato, insieme a chi scrive quest’articolo, Fratel Filippo Rizzo, padre Gaetano Greco, il dottor Raffaele Vitagliano, Monsignor Pietro Caggiano, Vice Postulatore della causa di canonizzazione di Bartolo Longo, l’onorevole Gianfranco Rotondi e l’onorevole Cosimo Ferri, sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia.
I relatori hanno ricordato come Bartolo Longo si oppose con forza alla scuola antropologica criminale di Lombroso, che all'osservazione della scuola cranica e dei tratti somatici aveva la disumana pretesa di individuare l’origine innata della delinquenza, e raccolse i figli dei condannati. "Nel ricevere i fanciulli – scrisse il fondatore del Santuario – non li guardo in faccia né sul cranio; ma solamente mi accerto se sono reietti ed innocenti abbandonati: e questo mi basta.
Li stringo al cuore e questo mi basta". E attraverso quest’opera egli arrivò a considerare i detenuti non esclusivamente per la loro condizione all’interno del carcere, ma anche in rapporto al mondo esterno, che, una volta scontata la pena, dovrebbe nuovamente accoglierli. Si parla in primo luogo della famiglia.
Ancora molto si deve fare per comprendere pienamente la condizione del condannato, che, in vista del sui reinserimento sociale, deve essere considerata non solo per quel che avviene nella restrizione del carcere, ma nella sua totalità. Occorre quindi valutarne anche gli effetti per le persone care, che ha lasciato. Sono affetti che deve poter continuare a coltivare, pur in un contesto di dolore. In questa prospettiva, l’onorevole Cosimo Ferri ha affermato che l’Opera di
Bartolo Longo "costituisce un punto di riferimento per il nostro sistema penitenziario.
Le sue idee, rivoluzionarie all’epoca, sono oggi fonte d’ispirazione per l’azione del Governo, che ha varato una serie di misure finalizzate ad una maggiore umanizzazione della pena". "I figli dei detenuti – ha proseguito Ferri – non sono solo meritevoli di tutela, ma hanno un ruolo di primo piano nell’opera di riscatto sociale e per questo dobbiamo sviluppare progetti di affettività e creare spazi e ambienti accoglienti a adatti agli incontri con il genitore detenuto.
In quest’ottica s’innesta perfettamente l’idea di un ciclo virtuoso tra detenuto e famiglia, fatto di scambio, di reciprocità, di vicinanza, di affettività e di contatto". "Il mio auspicio – ha concluso Ferri – è quello di poter proseguire nel processo di umanizzazione dei nostri penitenziari e che l’esempio di Bartolo Longo possa costituire davvero una via maestra da seguire in futuro, affinché si persegua un vero e proprio processo di socializzazione".
(Autore: Pier Ernesto Irnici)

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